Biemann, Bolaño, Margolles. La violenza della frontiera inscritta nei corpi

Abstract

La rappresentazione dei femminicidi di Ciudad Juárez è penetrata, soprattutto dalla seconda metà degli anni Duemila, nella cultura di massa occidentale, acquisendone le dinamiche di standardizzazione e consumo simbolico. Il fenomeno si è radicato nell’immaginario collettivo in quanto paradigma di una violenza sistemica complessa – in rilevante rapporto con la frontiera – che si accanisce sulla soggettività delle donne e dei loro corpi. Vale dunque la pena di tornare a riflettere su alcune opere fondamentali il cui sguardo, declinato secondo differenti linguaggi espressivi, ha anticipato con eccellenti risultati teoretici ed estetici la proliferazione testuale dello scorso decennio. Il video essay di Ursula Biemann, caratterizzato da una scrittura visuale al contempo percettiva e autoriflessiva, pone già nel 1999 la maggior parte delle questioni che verranno sviluppate dalle analisi successive. Altrettanto interessante è la relazione intersemiotica che si può stabilire tra 2666 di Roberto Bolaño e i diversi lavori di Teresa Margolles: in entrambi i casi la frontiera geografica e sociale moltiplica il proprio significato proiettandosi sulla frontiera tra nuda vita e morte, o sui confini della corporeità. La violenza assume il carattere di un dispositivo che interagisce per diffrazione costante con la rappresentazione, limitandola o permeandola, e che si palesa già di per sé come scrittura, capace di imprimere nei corpi i segni o le tracce delle relazioni di potere così come di imporre la propria peculiare grammatica ai linguaggi che la raccontano.